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Trump, ovvero il mercantilismo 3.0

Giugno 2019

Data di pubblicazione
3 giugno 2019
Tempo di lettura
3 minuto/i di lettura

Fino alla fine di aprile i mercati azionari hanno continuato a registrare
un andamento da equilibrista, in bilico tra attività economica in fase di ripresa e incertezza in termini di sostegno monetario. A partire dal mese di maggio, l’impatto dell’inasprimento della posizione dell’Amministrazione Trump nelle trattative commerciali con la Cina ha ricordato agli investitori la fragilità di questo equilibrio.

La domanda che i mercati devono porsi è valutare se una nuova accelerazione della crescita globale possa prevalere sul rallentamento dell’economia statunitense. La nostra valutazione resta invariata: il mantenimento di questo equilibrio è fragile, e un eventuale capovolgimento è ostacolato dai vincoli sia strutturali (eccessivo indebitamento, vincoli delle politiche monetarie) che congiunturali (tensioni commerciali), che lo impediscono.

Più a lungo termine, l’interrogativo verte sulla portata a livello globale della crescente rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti. Per la prima volta da trent’anni a questa parte, i fattori geopolitici potrebbero tornare a penalizzare profondamente il commercio mondiale.

Stati Uniti contro Cina: c’è spazio per due potenze mercantiliste?

Pare che i mercati abbiano tardato a riconoscere che le tensioni tra Stati Uniti e Cina rispecchiano una rivalità strategica più che un conflitto commerciale.

Le tensioni tra Cina e Stati Uniti possono anche essere interpretate come una rivalità incontenibile tra due potenze mercantiliste. Gli Stati Uniti di Donald Trump non credono ai vantaggi del libero scambio, di cui si considerano “vittime”, e a cui preferiscono lo sfruttamento brutale di un rapporto di forza favorevole nei confronti dei propri partner commerciali. Questa politica commerciale entra ovviamente in conflitto diretto con quella della Cina, a sua volta accusata, e non a torto, di un comportamento altrettanto mercantilista. Logicamente, prima o poi verrà estesa a tutti quei paesi che presentano una bilancia commerciale positiva con gli Stati Uniti, a partire dalla Germania e dal Giappone.

Se ne deduce che l’aumento delle tensioni commerciali tra gli Stati Uniti e i partner commerciali sia insito nel modello economico scelto dall’Amministrazione Trump e, nel caso della Cina, si sommi a una rivalità geo-strategica. Il problema per noi investitori è il fatto che rimettere in discussione il modello di “globalizzazione felice” degli ultimi decenni aggiunge alle incertezze a breve termine la minaccia permanente di una destabilizzazione delle catene logistiche globali per i margini delle imprese, di un aumento dei costi per i consumatori e di un rallentamento del commercio mondiale. Difficile in questo contesto attendersi una rivalutazione dei mercati azionari partendo dai livelli attuali, tranne che nel caso di un colpo di scena in termini di politica monetaria.

Le Banche Centrali hanno ancora il controllo della loro pietra filosofale?

Da dieci anni a questa parte i mercati si sono abituati al fatto che le Banche Centrali trasformino, con un colpo di magia di politica monetaria, qualsiasi cattiva notizia economica o politica in buona notizia per i mercati.

Per i mercati il problema è costituito dal fatto che, nonostante il ciclo di rialzo dei tassi di riferimento avviato due anni fa sia stato interrotto, la riduzione del bilancio della Fed proseguirà ancora fino al mese di settembre, mentre l’economia statunitense continua a rallentare. Di conseguenza, mentre l’aspettativa di un taglio dei tassi d’interesse sostiene la resilienza dei mercati e allo stesso tempo impedisce al dollaro di apprezzarsi, è un dato di fatto che la politica monetaria condotta attualmente resti restrittiva. Dovrà assumere una piega molto più accomodante per arginare gli effetti deflazionistici su una crescita, già in rallentamento, derivanti dall’inasprimento delle tensioni commerciali globali.

Vi è quindi il rischio che la pressione dei mercati debba aumentare ancora di più prima che un’inversione di rotta decisiva della politica monetaria possa cambiare lo scenario in modo adeguato.

L’Europa tra l’incudine e il martello

In questo contesto complesso, l’Europa non si trova in una posizione di forza. La difficoltà risiede innanzitutto nel processo di riforme che pare essersi interrotto a tempo indeterminato. A livello locale molti paesi europei, tra cui Italia e Francia, non hanno ripristinato alcun margine di azione fiscale per contrastare il prossimo rallentamento economico, mentre a livello dell’Unione il progetto di Macron di istituire un budget per la ripresa europea è in fase di stallo.

L’altra fonte di vulnerabilità deriva da una situazione molto passiva nella rivalità tra Cina e Stati Uniti. Quest’ultima rischia infatti di risultare penalizzante sia in caso di peggioramento delle prospettive economiche globali (il ritmo dell’attività economica in Europa è strettamente legato alle dinamiche del commercio mondiale), che in caso di un eventuale accordo commerciale tra Cina e Stati Uniti, per quanto precario, che avrebbe ripercussioni negative sull’Europa.

La coesione economica e politica dell’Europa e la potenza dei gruppi europei sono attualmente insufficienti per difenderne gli interessi in modo efficace in un contesto globale di crescenti rivalità mercantiliste.

Diffidenza e rigore

Negli ultimi due mesi abbiamo mantenuto e rafforzato una strategia di investimento prudente. Si rispecchia nei portafogli azionari attraverso livelli di esposizione moderati, privilegiando i titoli a crescita poco ciclica. Per quanto riguarda i portafogli obbligazionari, presentano duration abbastanza elevate, e posizioni nelle obbligazioni corporate estremamente selettive.

Fonte: Bloomberg, 31/05/2019

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