Il 2022 inizia all’insegna dell’inflazione dopo tanti anni in cui la sua costante assenza ha, da un lato, fatto temere l’instaurarsi di una deflazione devastante, e dall’altro ha lasciato molta libertà alle Banche Centrali.
Da oltre un decennio, la persistente lentezza dell’attività economica, unita alla mancanza di dinamismo sul fronte dei prezzi, ha consentito agli istituti di credito emittenti di sostenere l’attività economica, non appena se ne manifestava la necessità, attraverso tagli dei tassi di interesse a breve termine o acquisti di asset obbligazionari, che hanno penalizzato i tassi di interesse sulle scadenze a lungo termine (Quantitative Easing). Le Banche Centrali e i mercati, in base alle aspettative espresse o agli eccessi commessi, “hanno scelto” la politica monetaria da attuare, senza alcun vincolo se non quello dettato dalle loro esigenze.
Era il periodo in cui le notizie economiche negative, più numerose di quelle positive, diventavano buone notizie per i mercati poiché ogni volta inducevano le Banche Centrali a immettere liquidità, il carburante dei mercati con l’indice di ottani più alto. Ma questo accadeva prima e, come avevamo previsto diversi mesi fa, è ormai l’inflazione che, dopo essersi eclissata per molto tempo, “guida le decisioni” di politica monetaria.
Le Banche Centrali possono solo scegliere di piegarsi alle esigenze dell’inflazione. Le Banche Centrali hanno infatti un mandato specifico a cui non possono derogare in modo duraturo. In questo mandato, la stabilità dei prezzi occupa un posto di primo piano; scendere a compromessi con l’inflazione, significa mettersi in una posizione fuorilegge.
Il ritorno dell’inflazione come principale fattore determinante delle politiche monetarie ha due conseguenze principali. La prima è che l’incertezza relativa al livello dei tassi di interesse futuri aumenta in modo significativo, a seconda degli sbalzi della politica monetaria costretta a trovare una soluzione in tempo reale alla questione intricata dell’inflazione. La volatilità dei mercati obbligazionari è quindi destinata ad aumentare, e di conseguenza quella dei mercati azionari.
I tentativi di comunicare le decisioni di politica monetaria ai mercati “in diretta”, per attutirne l’impatto immediato, saranno spesso destinati a fallire. L’evoluzione della comunicazione della Federal Reserve statunitense (Fed), dopo la sua scoperta curiosamente tardiva del persistere dell’inflazione lo scorso novembre, e, ancora più di recente, quella della Banca Centrale Europea (BCE) attraverso la voce del suo Presidente Christine Lagarde, lo hanno comunque illustrato in modo grottesco.
Passare, come è stato fatto, da una posizione negazionista nei confronti dell’inflazione in prospettiva futura, ad annunci di possibili e numerosi rialzi dei tassi di interesse, accompagnati o meno dalla rapida riduzione del portafoglio obbligazionario (Quantitative Tightening), è solo un segnale anticipatorio della destabilizzante imprevedibilità dell’inflazione e della difficoltà di tenerla sotto controllo adottando un processo continuo e standardizzato. La volatilità è tornata!
È nuovamente l’inflazione a guidare le decisioni di politica monetaria!
La seconda conseguenza del comeback dell’inflazione è il fatto che, per adempiere al proprio mandato, le Banche Centrali possono essere indotte a riassorbire liquidità anche se si sta delineando o registrando un rallentamento. E con ogni probabilità, potrebbe essere questo l’orientamento assunto attualmente dagli Stati Uniti, e forse dall’Europa in futuro.
La congiuntura statunitense rappresenta infatti un grande dilemma per la Fed: un rallentamento del tasso di crescita economica da oltre il 5% attuale a un più modesto 2% nell’ultimo trimestre del 2022, mentre l’inflazione dovrebbe mantenersi al di sopra del 7% fino a marzo, tornando successivamente a scendere a un valore ancora troppo elevato del 3% alla fine dell’anno. Questa configurazione economica giustifica l’inasprimento monetario, finalizzato a garantire che l’inflazione possa avvicinarsi in modo soddisfacente all’obiettivo del 2%.
Questa stretta monetaria, in un contesto di lungo periodo in cui il consensus di mercato non crede né che l’inflazione possa restare a lungo lontana dal proprio obiettivo, né a una crescita costantemente vigorosa, rappresenterà una fonte di ansia (ci sono passati 40 anni di disinflazione e oltre 20 anni di crescita lenta). Alcuni si appelleranno all’errore di politica monetaria, altri al rischio di ripresa delle pressioni deflazionistiche.
Lo scetticismo nei confronti dell’inflazione può avere un impatto significativo, che la Banca Centrale statunitense potrebbe volere attenuare: con ogni probabilità il moltiplicarsi dei rialzi dei tassi di riferimento sarà accompagnato da un aumento più ridotto dei tassi a lungo termine (appiattimento della curva dei rendimenti), dato che i mercati continuano a ritenere che la reazione della Fed basterà a neutralizzare le aspettative di inflazione e di crescita, mantenendo quindi i tassi a lungo termine a livelli relativamente bassi.
Questa situazione potrebbe non piacere alla Federal Reserve, che potrebbe quindi pensare che l’aumento ridotto dei tassi di interesse a lungo termine possa rendere inefficace la sua politica di inasprimento monetario. La Fed, infatti, ha soprattutto bisogno di raffreddare il mercato immobiliare che mostra molti segnali di surriscaldamento. Tale mercato è influenzato dai tassi a lungo termine, che la Fed deciderà di aumentare in misura sufficiente a innescarne il rallentamento.
Negli Stati Uniti, il mercato degli immobili residenziali è infatti diventato sempre più speculativo con la crescente partecipazione di investitori in cerca di rendimento, nettamente a discapito degli acquirenti costretti a inseguire l’aumento dei prezzi al metro quadro. Tale situazione ci fa ritenere che l’arma della riduzione del bilancio della Banca Centrale statunitense verrà utilizzata a partire da quest’anno, poiché ha un effetto diretto sui tassi di interesse a lungo termine.
La situazione statunitense sarà determinante per la politica monetaria europea
È possibile che il Presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, nel suo brusco dietrofront abbia anche tenuto conto del fatto che questo ciclo economico è diverso da tutti gli altri? La stretta monetaria viene infatti attuata in un momento in cui gli operatori economici si trovano in una situazione finanziaria favorevole, resa possibile dai massicci sostegni fiscali e monetari messi in atto per fronteggiare gli effetti della pandemia, in grado di rendere i consumatori meno vulnerabili di fronte a un inasprimento monetario.
Tuttavia, non possiamo ignorare lo scetticismo del consensus di mercato nei confronti della sostenibilità dell’inflazione statunitense. I timori di deflazione che hanno caratterizzato i mercati negli ultimi dieci anni sono ancora estremamente reali, nonostante la fase di inflazione attraversata attualmente dall’economia globale. La prospettiva che l’inflazione possa tornare al 2,5% entro due anni è credibile, anche se apparentemente non tiene conto di alcune inversioni di tendenza strutturali potenzialmente inflazionistiche, come il prezzo dell’energia, la riduzione del tasso di risparmio per motivi demografici, o le delocalizzazioni industriali programmate.
A breve termine, benché il rallentamento atteso dell’economia abbia un effetto più marcato del previsto sull’inflazione, la portata dell’inasprimento monetario atteso potrebbe essere gradualmente rivista al ribasso, tanto più che riteniamo che la Fed possa voler parzialmente temporeggiare in tal senso, per quanto possibile. Non siamo quindi al riparo da sorprese positive sul fronte monetario, ma questo non rappresenta il nostro scenario di riferimento.
Per quanto riguarda Christine Lagarde, che presiede le sorti monetarie dell’Europa, il suo recente e radicale cambio di toni spiana la strada a un probabile inasprimento monetario a partire da quest’anno. È quindi possibile ricercare l’origine “dell’Illuminazione”, che ha determinato la sua nuova conversione, partendo dal momento in cui buona parte dell’inflazione europea è attualmente dovuta a una causa esterna, su cui la BCE non ha alcun controllo: i prezzi dell’energia.
Prevede trattative salariali ostili in tutto il Vecchio Continente che potrebbero portare l’Europa verso le dinamiche inflazionistiche degli Stati Uniti, in atto da quasi un anno? Il timore pare fondato. Bisogna diffidare di una situazione in fase di stallo da troppo tempo, ma conviene innanzitutto tenere d’occhio la situazione americana che sarà determinante per la politica monetaria europea.
L’anno che inizia si preannuncia sicuramente volatile, entusiasmante e ricco di opportunità. Uno di quegli anni ricchi di sfide e stravolgimenti, più in sintonia con la nostra vocazione di gestori attivi, rispetto a quelle annate monolitiche in cui la performance è il risultato frustrante di una decisione banale e unica: conservare gli investimenti, in modo passivo.
Fonte: Carmignac, Bloomberg, 04/02/2022
1Dopo la settimana in cui la Federal Reserve, la Bank of England e la Banca Centrale Europea hanno inasprito i toni nei confronti dell’inflazione. 2Il picco dell’inflazione era previsto per novembre; si dà ormai generalmente per scontato che si registrerà a febbraio o marzo, e che sarà pari a circa il 5,5 % annuo nell’Eurozona. 3L’aumento è stato più marcato sulle scadenze a breve termine, influenzate dall’andamento delle politiche monetarie rispetto a quelle a lungo termine. 4Registrano ormai un andamento a un livello superiore alla loro media mobile a tre anni. 5A livelli pari a 90, l’indice MOVE ha superato i livelli massimi di marzo 2020.