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Un enigma durato quasi dieci anni in fase di risoluzione

Marzo 2018

Data di pubblicazione
5 marzo 2018
Tempo di lettura
6 minuto/i di lettura

Fin dai primi giorni del 2009, quando le Banche Centrali dei paesi sviluppati iniziarono a gettarsi a capofitto in politiche monetarie estremamente accomodanti, sono cominciati a sorgere dubbi circa l’esito di queste ultime. Un peggioramento della crescita e dell’inflazione nella fase conclusiva avrebbe significato un amaro fallimento di queste politiche, e quindi sicuramente una crisi di fiducia devastante per i mercati. Questa opzione è attualmente esclusa. Lo scenario di riferimento mantenuto dai mercati negli ultimi anni, che ha sostenuto tutti gli asset finanziari, è stato caratterizzato da livelli di crescita e di inflazione che non rappresentavano più un pericolo ma che erano ancora troppo bassi, e ciò giustificava il proseguimento interminabile di politiche monetarie molto accomodanti. Alla fine il 2018 inizia con un epilogo a priori positivo di una vicenda sofferta: una ripresa significativa della crescita e dell’inflazione, che sancisce il successo di anni di politiche monetarie attive che possono quindi concludersi. Si apre tuttavia un periodo di inevitabile instabilità sui mercati, che si trovano ad affrontare il problema della difficile interpretazione da attribuire a questo epilogo, nelle sue implicazioni su tutte le asset class.

Gli investitori si trovano attualmente ad affrontare una situazione critica quanto quella del 2009, ovvero interpretare con esattezza l’impatto sui mercati derivante dall’avvio di un nuovo contesto di liquidità.

Nel 2009, l’avvio di politiche monetarie di cui non si conoscevano gli effetti, aveva alimentato le aspettative più errate circa il loro impatto sui mercati finanziari. La prospettiva di creazione di moneta fuori dall’ordinario aveva indotto molti economisti a temere un ritorno significativo delle tensioni inflazionistiche, che avrebbero messo sotto pressione i mercati obbligazionari. Allo stesso tempo, i mercati azionari non avrebbero potuto registrare rialzi in un contesto di crescita economica perennemente debole. Come è noto, le cose sono andate diversamente. I mercati azionari e obbligazionari hanno entrambi registrato fasi di rialzo senza precedenti. Per un paradosso di portata storica, il fallimento delle Banche Centrali nello stimolare la crescita e l’inflazione nel corso degli anni ha assicurato il continuo sostegno agli investitori,durante tutto questo periodo, sotto forma di abbondante liquidità. Sono stati quindi spinti ad aumentare la loro esposizione al rischio per poter conseguire rendimenti accettabili, in un contesto di tassi di interesse portati volutamente a livelli sempre più bassi. Dover anticipare le conseguenze derivanti dalla conclusione di questa modalità operativa è difficile tanto quanto nel 2009, poiché anche in questo caso non vi sono precedenti.

[Insights] 2018 03_Carmignac Note(All) IT
Fonte: Bloomberg, Carmignac, 28/2/2018

Fino ad oggi, il consensus è allinato nell’attesa

Negli Stati Uniti le aspettative sugli utili per azione del 2018 sono in rialzo al 18,4%, e al 7,5% nell’Eurozona

Negli Stati Uniti, la riforma fiscale approvata alla fine dello scorso anno, lascia sperare in una espansione dell’attività economica. Mediamente le previsioni di crescita economica per il 2018 si avvicinano ormai al 3%, con un’inflazione superiore al 2%. Nell’Eurozona l’aspettativa di crescita economica è pari a circa il 2,5%, nonostante si preveda che il tasso di inflazione annuo non supererà l’1,5%. Grazie a questo contesto ancora positivo, all’inizio dell’anno le previsioni di crescita degli utili delle imprese per il 2018 sono state ancora riviste al rialzo (+18,4% stimato ora negli Stati Uniti, +7,5% nell’Eurozona). Questa dinamica in termini relativi spiega perchè i mercati azionari statunitensi, in particolare il settore tecnologico, abbiano inizialmente mantenuto la loro crescita nonostante le comprovate tensioni sui tassi di interesse, e comunque continuino a superare i mercati europei. Tuttavia nel breve e medio periodo, questo consensus dovrà affrontare due sfide specifiche.

A breve termine, i mercati obbligazionari continueranno a rappresentare una fonte di instabilità.

I rendimenti dei titoli governativi statunitensi, giapponesi e tedeschi, diminuiti durante gli anni di intervento delle Banche Centrali, sono ormai entrati nella delicata fase di convergenza verso i prezzi corretti di mercato. Questa correzione non avverrà in modo tranquillo, poichè i mercati non hanno punti fissi di riferimento per interpretare le dinamiche economiche, le fasi di ripresa dell’inflazione e la modalità di reazione delle Banche Centrali. Questa deduzione deriva in particolare dall’analisi della riforma fiscale statunitense, che aumenterà il fabbisogno finanziario del Tesoro americano, proprio nel momento in cui la Fed sta invece iniziando a diminuire il suo sostegno alla liquidità disponibile, riducendo la riserva di titoli governativi in portafoglio.

Quantificare l’impatto netto sui rendimenti dei Titoli di Stato di questo sconvolgimento dell’equilibrio tra domanda e offerta sarà una delle sfide principali nei prossimi mesi. Sarà ancor più fonte d’instabilità per i mercati azionari perchè l’interpretazione risulterà alterata da nuovi timori di inflazione negli Stati Uniti. Questi sono alimentati da effetti base sfavorevoli e da dati positivi sui salari, dalla ricomparsa di velleità protezionistiche del governo Trump, nonché da strascichi di incertezze politiche in Italia e in Germania. Infine, la dimensione del patrimonio raggiunto dalla gestione passiva e tramite algoritmi è tale da amplificare l’entità dei movimenti irregolari dei mercati.

Al termine di questo periodo di instabilità, il problema sarà ancora quello relativo al successivo contesto di mercato.

Gli squilibri che si sono accumulati negli ultimi dieci anni sollevano grandi problemi di correzione

Gli squilibri accumulati negli ultimi dieci anni sollevano grandi problemi di correzione. Il livello del debito pubblico, ma anche del settore privato, che nel suo complesso ha beneficiato dei tassi bassi per aumentare il ricorso alla eva finanziaria, è ora più elevato del periodo successivo alla grande crisi finanziaria del 2008: ad esempio è pari a ben 250% del PIL per tutta l’economia statunitense e ben200% per il solo governo giapponese. Nell’Eurozona il debito pubblico, che fino al 2009 era pari a 72,8% , è ora salito a 83,2%. Per il momento la previsione di una ripresa dell’inflazione unita ad una ripresa economica presenta il vantaggio di ridurre il costo reale del debito, mentre aumenta l’attrattiva dei mercati azionari, come rifugio contro l’erosione monetaria.

Da questo punto di vista, il rischio principale è costituito dalla reazione delle Banche Centrali, e in particolare della Fed, qualora dovessero inasprire eccessivamente le loro politiche monetarie. Per il momento i mercati scommettono sul fatto che le Banche Centrali avranno l’accortezza di mantenere i tassi reali bassi e addirittura negativi, a costo di non stare al passo con l’aumento dell’inflazione, al fine di prevenire il crollo del mercato obbligazionario. Questa scommessa sembra razionale. Tuttavia, è prevista la sospensione e anche l’inversione di tendenza dei programmi di acquisto di asset da parte delle Banche Centrali. Inoltre nessuno sa veramente a quale livello si attesterà il prezzo di equilibrio dei titoli governativi a lungo termine, a maggior ragione se la minaccia inflazionistica dovesse protrarsi, in un momento in cui la domanda degli investitori si sarà necessariamente sostituita a quella delle Banche Centrali. Questo rischio giustifica il proseguimento di una gestione estremamente attiva della duration modificata sui tassi di interesse.

Ci pare tuttavia che un altro scenario si possa delineare dopo il periodo di turbolenza.

Il ciclo economico statunitense si trova già in fase molto avanzata. Nonostante la riforma fiscale, gli indicatori economici anticipatori lasciano presagire un eventuale rallentamento congiunturale entro la fine dell’anno. In Cina, gli indicatori dell’attività industriale (indice PMI del mese di febbraio) hanno deluso le aspettative. Nell’Eurozona, i recenti indicatori dell’attività economica si sono leggermente indeboliti per la prima volta dal 2016 (fiducia dei consumatori, indice PMI). Nel Regno Unito il rallentamento è già una realtà. Di conseguenza, a maggior ragione se le turbolenze di mercato dovessero erodere maggiormente la fiducia generale, lo scenario di un rallentamento economico congiunturale è forse quello che i mercati, erroneamente, ignorano. Limiterebbe il rischio di una correzione più marcata sul mercato obbligazionario, ma concentrerebbe in modo significativo le differenze settoriali all’interno dei mercati azionari. Ci ritroveremmo nuovamente in un contesto di crescita , dove i titoli ciclici e quelli con un’elevata leva finanziaria sarebbero ancora una volta penalizzati. I titoli growth, invece, che vantano bilanci solidi e forte visibilità, fortemente rappresentati sul mercato statunitense, si ritroverebbero molto più avvantaggiati.

Una strategia di investimento di successo dovrà ormai essere incentrata su approcci diversi rispetto a quelli che si sono rivelati vincenti negli ultimi anni. Sarà determinante gestire sul nascere l’instabilità dei mercati ed elaborare un’adeguata costruzione dei portafogli in vista dell’avvio di un nuovo regime operativo.

Fonte : Bloomberg, 03/03/2018

Strategia di investimento
Azioni

Dopo un inizio d’anno euforico, nel mese di febbraio i mercati hanno registrato una flessione. L’aumento dei tassi d’interesse, più che i timori relativi alle prospettive economiche, è alla base della correzione oltre che del picco di volatilità registrati il mese scorso. Dagli Stati Uniti all’Europa, al Giappone, e ai paesi emergenti, le performance sono ste negative in modo uniforme in tutte le aree geografiche. Le divergenze settoriali sono state invece molto marcate. I settori vulnerabili all’aumento dei tassi di interesse, come quello dei servizi pubblici, immobiliare o delle telecomunicazioni sono stati fortemente penalizzati, mentre i settori che presentano una correlazione positiva con i tassi di interesse, come quello dei titoli finanziari, sono cresciuti.

L’allocazione settoriale che privilegia i titoli tecnologici ha mostrato un’ottima tenuta in questo contesto. Considerati i loro bilanci e il profilo di crescita degli utili, i titoli tecnologici sono infatti meno influenzati dalle variazioni dei rendimenti obbligazionari. Il tasso di esposizione azionaria dei Fondi globali è stato gestito in modo molto attivo, e continuerà a esserlo nella fase di instabilità appena iniziata.

Dopo il significativo rialzo del mese di gennaio, i rendimenti statunitensi sono aumentati anche a febbraio. I rendimenti decennali sono aumentati in misura leggermente superiore a quelli quinquennali, e hanno consentito curva dei rendimenti di tornare a irripidirsi, com’è giusto che sia aridurre i timori di recessione. Da parte loro, i rendimenti tedeschi hanno smesso di aumentare, mentre alcune obbligazioni dei paesi periferici hanno registrato una ripresa della volatilità. I premi di rendimento del credito sono infine continuati a gradualmente aumentare .

La nostra prudente ed equilibrata costruzione di portafoglio, caratterizzata da una duration modificata complessiva bassa e da un’esposizione al credito che è stata ridotta ed è sempre più selettiva, ci ha consentito di ammortizzare i contraccolpi dei mercati obbligazionari. Manteniamo la nostra strategia di arbitraggio che punta ad approfittare dei premi obbligazionari per il rischio ma a salvaguardarci dall’aumento dei tassi d’interesse: continuiamo pertanto ad avere un posizionamento lungo nelle obbligazioni europee dei paesi periferici (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) e in quelle emergenti (in particolare in America Latina) e posizioni corte nei titoli sovrani “core” di Stati Uniti e Germania. Abbiamo ridotto il rischio alla fine del mese, riducendo tutte le posizioni.

Mentre nel mese di febbraio l’euro ha smesso di apprezzarsi nei confronti del dollaro (dopo essersi apprezzato di oltre il 3% lo scorso gennaio), lo yen ha proseguito il proprio rimbalzo. Dall’inizio dell’anno la valuta giapponese ha quindi registrato un rialzo superiore al 5% rispetto al dollaro sfiorando ormai la soglia tecnica di 106 yen per dollaro statunitense, un livello fondamentale per le coperture valutarie delle grandi aziende esportatrici giapponesi.

La nostra strategia valutaria, dimensionata su un’esposizione ridotta al dollaro e piuttosto elevata a yen ed euro, ha quindi contribuito positivamente alla performance complessiva dall’inizio dell’anno.

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