Il continuo stupore dei mercati per la resilienza dell’inflazione e la considerazione troppo parziale dei fattori alla base dell’aumento dei prezzi sul lungo periodo rappresentano le componenti di un trend duraturo, ritiene Frédéric Leroux, membro del Comitato di investimento strategico di Carmignac.
Frédéric Leroux : Gli operatori finanziari intenti alle grida nella “corbeille” nel 1980, ad oggi non sono più così numerosi dietro ai loro schermi. Si ricorderanno ancora della struttura degli anni che hanno spinto l’inflazione statunitense e quella europea fino al 15%? Non ne sono sicuro… Per tutti coloro che credono ancora che il passato possa aiutare a comprendere il presente e gli eventi futuri, l’ancora di salvezza è costituita solo da buoni libri.
F.L. : Se prendiamo in considerazione gli anni 1965-1980, sono ricchi di insegnamenti. È stato un periodo di inflazione molto elevata, alimentata da uno shock petrolifero avvenuto dopo un lungo periodo di calma sul fronte dei prezzi; lo stesso scenario attuale. Tuttavia, non è detto che sin d’ora gli operatori finanziari intendano considerare l’impennata dei prezzi post-Covid come preludio a un vero e proprio ciclo inflazionistico.
F.L. : Ad oggi, le loro aspettative di inflazione negli Stati Uniti prevedono infatti un calo al 2,75% a metà del 2023, e una successiva stabilizzazione a circa il 3% negli anni successivi. In altre parole, è come se l’attuale impennata dei prezzi fosse fine a sé stessa, un po’ come è avvenuto due o tre volte negli ultimi quattro decenni. Tuttavia, esistono diversi fattori inflazionistici strutturali di cui bisogna tenere conto.
F.L. : Aspetti demografici (meno risparmiatori a livello globale, meno giovani Cinesi da inserire ad ogni costo nel mondo del lavoro), commercio (calo del peso del commercio globale nel PIL, possibile fine della flessione dei prezzi nel commercio online), aspetti sociologici (preferenza per l’etica a scapito dell’efficienza immediata), oltre che l’impatto della transizione energetica.
F.L. : Esattamente. Inoltre, non è detto che qualche rialzo dei tassi di interesse possa fare scomparire l’inflazione per un periodo prolungato, come auspicano le Banche Centrali, il cui obiettivo principale è quello di garantire la stabilità dei prezzi e una crescita sostenibile.
F.L. : Une recessione negli Stati Uniti. Tuttavia, benché necessaria per riassorbire l’aumento dei prezzi, non dovrebbe manifestarsi nell’immediato…
F.L. : Ad oggi, è inverosimile che si possano prendere decisioni analoghe a quelle prese nel 1980 negli Stati Uniti, dove Paul Volcker, all’epoca Presidente della Federal Reserve (Fed), aumentò i tassi di riferimento della Banca Centrale statunitense al 20%, in un momento in cui l’inflazione stava scendendo a circa il 10%. Per non parlare, nello stesso anno, di quando il Presidente Ronald Reagan bandì 11.400 controllori di volo dal servizio pubblico, a causa di uno sciopero illegale proclamato per ottenere un aumento salariale.
F.L. : Tornando al periodo 1965-1980, il settore petrolifero statunitense intraprese enormi sforzi in termini di investimenti per sviluppare la produzione locale, a seguito dello shock petrolifero del 1973, che oggi paiono impensabili.
F.L. : A meno che si possa prevedere la scomparsa di Vladimir Putin, non è certo che le fonti di approvvigionamento precedenti possano tornare disponibili in tempi brevi. Per quanto riguarda le soluzioni alternative, non sono ancora pronte per essere impiegate, mentre allo stesso tempo il calo degli investimenti nei combustibili fossili da quasi dieci anni a questa parte ne sta necessariamente aumentando il costo. Inoltre, l’esistenza della crisi energetica, nonostante la Cina si trovi in fase di stallo, ne conferma la solidità.
F.L. : Con la crisi sanitaria, il consumatore statunitense è riuscito ad accumulare un surplus di risparmi pari al 12% del PIL americano, il che lo pone in posizione di forza nelle trattative salariali con i datori di lavoro. Da allora, l’aumento medio annuo dei salari è pari al 7% negli Stati Uniti. Quando l’inflazione inizierà a diminuire, l’aumento dei salari potrebbe registrare un rallentamento, ma più lentamente.
F.L. : Sì, poiché ciò innescherà un aumento del salario reale (il salario corretto in base all’inflazione). Sicuramente, questo sosterrà i consumi e quindi la crescita, ma porrà un freno anche alla disinflazione (il rallentamento dell’aumento dei prezzi)… La recessione non è quindi un obiettivo immediato.
F.L. : Sì, e bisognerà abituarsi. Il continuo stupore dei mercati per la resilienza dell’inflazione, che nelle analisi è stata ritenuta a lungo come “ transitoria “, e la considerazione troppo parziale dei fattori alla base dell’aumento dei prezzi sul lungo periodo, rappresentano le componenti di un trend duraturo. Inoltre, dato che attualmente il livello di tolleranza al dolore è quello che è, si può essere quasi certi che le Banche Centrali si affretteranno a tagliare i tassi di interesse non appena l’inflazione core inizierà a diminuire, con il rischio che sia troppo prematuro.
F.L. : Il ritorno di un’inflazione elevata alimenta il ciclo economico (espansione, recessione e ripresa), costringendo le Banche Centrali ad agire in modo diverso rispetto a quanto fatto per anni, quando hanno mantenuto artificiosamente i tassi di interesse a livelli bassi. Questo contesto, sconosciuto a molti, è destinato a favorire le gestioni attive1 , comprese quelle obbligazionarie contrariamente a quanto si pensi.
F.L. : Un contesto di inflazione non comporta necessariamente una gestione obbligazionaria sottotono. Le inversioni di tendenza dell’inflazione rappresentano momenti molto importanti, che spianano la strada a forti movimenti sui mercati. Una gestione obbligazionaria attiva, basata sulla ciclicità dell’economia, può consentire di implementare strategie in grado di contribuire in modo significativo alla performance dei portafogli.
F.L. : Da un lato, privilegiamo una forte esposizione ai cosiddetti titoli “difensivi” (sanità, consumi di base …) in grado di ammortizzare l’impatto di una recessione, e dall’altro le società che possono trarre vantaggio dalle pressioni inflazionistiche, normalmente negative per la maggior parte dei titoli azionari, in particolare nel settore dell’energia.