L’inflazione dovrebbe diminuire in modo significativo in Europa a partire dal mese di settembre. Si può quindi prevedere un ritorno rapido e duraturo alla situazione esistente prima della pandemia? Probabilmente no.
Dopo essere stato negato, poi minimizzato e infine ritenuto senza futuro, il ritorno dell’inflazione è ormai una realtà con cui tutti devono fare i conti. Le valutazioni dei prodotti indicizzati all’inflazione sono indicative di una ripresa dell’aumento dei prezzi del 2,0% – 2,5% in diciotto mesi, ma un’alternativa più duratura è verosimile.
Questa possibilità si basa sull’analisi delle tendenze a lungo termine dei fattori demografici, del commercio a livello mondiale o dei prezzi nel commercio online. Dopo avere alimentato la disinflazione degli ultimi decenni, queste tendenze a lungo termine stanno attualmente mostrando segni tangibili di un cambio di rotta. Il desiderio della gente di sostituire la pura efficienza economica con una maggiore etica in ambito economico, rafforza la probabilità che l’inflazione tendenziale sia sulla buona strada per diventare duratura, con i suoi alti e bassi. Inoltre, come nettamente dimostrato dagli Stati Uniti, per la prima volta da decenni, i salari stanno contribuendo all’inflazione rafforzando così la sua natura potenzialmente duratura. Dopo aver registrato una situazione di stallo per molto tempo, il trend dei salari si è bruscamente interrotto e non dovrebbe registrare un’inversione di tendenza in tempi brevi.
La convinzione di poter far regredire l’inflazione senza gravi danni è sicuramente illusoria, considerate le pressioni strutturali che la stanno alimentando. Pare quindi necessario sostituire il nostro programma disinflazionistico con una soluzione più consona al nuovo contesto che, nostro malgrado, si sta delineando: ripresa dei salari che riduce il calo dei redditi reali, reindustrializzazione per ridurre la dipendenza energetica e quella industriale, conciliazione tra etica ed efficienza economica così da non aumentare le pressioni inflazionistiche esterne. Ci auguriamo che il calo dei prezzi previsto nei prossimi mesi non ci faccia dimenticare il cambio di contesto attualmente molto tangibile.
Negli Stati Uniti, i salari sono mediamente in aumento del 6%, mentre l’inflazione sembra destinata a diminuire rispetto al picco locale dell’8,5%. Questo calo atteso consente di prevedere una crescita auspicabile dei salari reali oltreoceano, dove il dipendente tornerà a essere in una posizione favorevole in termini di negoziazioni contrattuali.
Ma in Europa i salari sono aumentati solo dell’1,5 %, mentre i prezzi sono aumentati di quasi il 7,5%. Sebbene questo divario sia parzialmente colmato da vari tipi di aiuti (buoni energia, “sconti alla pompa”, in primis buoni per generi alimentari per i meno fortunati), queste soluzioni possono solo essere temporanee. Aumentano la dipendenza delle famiglie dallo Stato e impediscono gli adeguamenti che ne deriverebbero mascherando la realtà dei prezzi.
Non consentire ai redditi delle famiglie di ridurre, quanto meno in parte, il divario con l’inflazione, significa avere la certezza che i popoli europei inizieranno a protestare nelle piazze. In via preventiva, i governi dovrebbero rapidamente prendere in mano la situazione, agevolando gli aumenti delle retribuzioni da parte delle imprese. Dopo tutto, la crescita nominale può avere il pregio, in una certa misura, di ridurre il debito rispetto al PIL. Mantenere la gestione improntata alla disinflazione dei decenni passati ci condannerebbe a una profonda recessione, con il forte rischio di non raggiungere la stabilizzazione duratura dei prezzi, le cui cause sono soprattutto esterne, e di aumentare il debito. Una tripla complicazione!
L’Europa deve poi fare i conti con le proprie dipendenze, industriale, militare ed energetica, che il Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno bruscamente messo in luce. La conseguente esigenza di rilocalizzazione offre l’opportunità di reindustrializzare i paesi europei, ove necessario. La Francia è un candidato papabile, tanto più che il suo apparato nucleare le attribuisce un importante vantaggio competitivo, soprattutto se sarà più moderno e all’avanguardia. Pretendere di diventare o di restare una nazione industriale senza avere il controllo del proprio approvvigionamento energetico non è più un’opzione. Ci saranno opportunità da cogliere.
I posti di lavoro nel settore industriale sono ben retribuiti, grazie alle qualifiche richieste e alla crescente produttività delle aziende industriali. I lavori saltuari nelle attività dei servizi, come la consegna a domicilio, hanno innegabilmente dei pregi ma mostrano anche i loro limiti. Il contesto di inflazione giustifica più che mai la realizzazione di sforzi significativi in termini di produttività, che un’industria moderna consente.
La reindustrializzazione potrebbe essere un motivo per reindirizzare i risparmi delle famiglie verso asset i cui interessi sono in linea con quelli dello Stato, poiché potenzialmente redditizi anche in un contesto inflazionistico. Ciò rappresenterebbe un cambiamento significativo rispetto agli ultimi dieci anni, in cui la repressione finanziaria ha spinto i risparmiatori a finanziare il debito pubblico a fronte di rendimenti negativi.
Incentivare contemporaneamente la partecipazione dei dipendenti ai risultati delle loro aziende costituirebbe un mezzo, complementare e virtuoso, per indicizzare i redditi all’inflazione. Diverse grandi aziende hanno appena annunciato nuovi programmi volti a promuovere l’azionariato dei dipendenti. Se questi meccanismi integrassero un minimo di incentivazione e di tutela, sarebbe possibile allineare su vasta scala gli interessi dei dipendenti e della loro azienda a quelli del risparmiatore e dello Stato, minimizzando allo stesso tempo e in modo virtuoso la riduzione dei redditi reali.
La terza strada da percorrere per far sì che il fenomeno dell’inflazione, probabilmente duraturo, diventi un evento economico favorevole è complementare delle altre due: cercare di conciliare nel miglior modo possibile il desiderio di moralità economica con il bisogno di efficienza economica. A tale proposito, è necessario ritrovare uno spirito economico, che ci ricordi che il desiderio di un’economia più morale non può allontanarci a lungo dal concetto di realtà.
Lo stesso vale per i fattori geopolitici, così come per i vincoli energetici. La disponibilità di energia risponde a fattori fisici che non si possono ignorare. L’ingegnere e l’imprenditore sono sufficientemente coinvolti nelle decisioni politiche relative al ritmo della transizione energetica? Il contesto attuale mostra chiaramente che il ritmo scelto è troppo rapido, che contribuisce all’inflazione e che crea un rischio di mancata corresponsione tra offerta e domanda di energia. Non si dovrebbe riprendere la prospezione petrolifera e del gas in condizioni e in aree geografiche che sostengono il nostro futuro e quello delle nuove generazioni?
Se il concetto di realtà tornasse a essere alla base delle decisioni politiche ed economiche “a maggior impatto”, il periodo attuale potrebbe diventare propizio, con un po’ di fantasia e di audacia, all’inizio di una fase di prosperità più ampiamente condivisa. Il periodo che sta iniziando può infatti presentare alcune analogia con i cari “trent’anni gloriosi”, che sono intercorsi tra il 1950 e il 1980 in un contesto tendenzialmente inflazionistico.
Questi tre decenni magici corrispondono ad anni di ricostruzione, che hanno consentito l’ascesa di un ceto medio consistente. La cura delle nostre tre dipendenze, messe in luce dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina, rende necessaria anche una sorta di ricostruzione attraverso la reindustrializzazione. Per quanto riguarda il ceto medio, spesso penalizzato dalle tendenze deflazionistiche strutturali degli scorsi anni, vi è l’opportunità, tra misure salariali, partecipazione azionaria dei dipendenti e sistemi di risparmio creativi e virtuosi, di riportarlo a uno status invidiabile in grado di ricreare dinamiche economiche positive, che il lungo periodo di rigore dei salari, inflazione troppo bassa e tassi di interesse negativi aveva atrofizzato.
L’alta probabilità di un cambio di contesto sul fronte dell’inflazione rende complesso il compito dei gestori di fondi. Ma il ritorno dell’inflazione significa anche ritorno del ciclo economico, dopo una parentesi di dodici anni durante la quale la gestione attiva aveva perso i suoi riferimenti. La ciclicità e la sua simmetria consentiranno l’alternarsi di sovraperformance tra azioni e obbligazioni, tra i titoli growth e quelli ciclici, obbligazioni corporate e debito pubblico, dollaro e oro.
Il periodo più mutevole che si sta delineando riporterà la gestione attiva, attraverso la possibilità che avrà di identificare rapidamente le inversioni di tendenza del ciclo economico, all’antico splendore. Ora tocca a noi far dimenticare gli ETF generalisti e tutte le gestioni passive, che hanno conquistato le preferenze dei risparmiatori durante il lungo periodo aciclico che sta volgendo al termine
Fontes: Carmignac, Bloomberg, 17/05/2022